Non verrò al tuo funerale

Non verrò al tuo funerale. Cara amica, sarò l’unica stronza che non sarà al tuo funerale, di fronte a un intero paese che si ricorderà di te, di fronte a tanta gente che ti voleva bene e a cui mancherai. Non posso sopportare il teatrino di lacrime e preghierine fatto sulla pelle della mia amica. Non posso sopportare le condoglianze. Non posso sopportare i colpevoli che raccontano al mondo che è colpa tua. Non posso sopportare e fingere di credere a quello a cui tu stessa non credevi. Non posso sopportare perché io, più stronza di te che la stronza non la facevi mai, non sopporto.

La nostra amicizia non era fatta di cuori, di bacini e bacetti: abbiamo camminato e corso insieme, abbiamo chiacchierato dondolandoci sull’altalena l’ultima volta poco tempo fa, abbiamo giocato tanto da bambine, ci siamo perse per strada e ci siamo ritrovate, abbiamo parlato tanto da adulte ritrovandoci cambiate e contemporaneamente ugualmente affiatate.

Rest in peace, amica mia. Lascia finalmente che le borse pesanti le portino altri, che lo stress a cui eri costantemente sottoposta ti si stacchi dall’anima e vola così, oltre tutti e oltre tutto.

Love, Chicchi.

Il giorno prima del primo giorno

Domani Nano comincia le scuole elementari. Pacca sulla spalla e buona fortuna figlio mio, direte voi. Invece no: nella Germania delle relazioni fredde raccontate da chi qui non è vissuto, il primo giorno di scuola primaria è un momento importantissimo, sentito e celebrato.

Lui e io facciamo fatica a mettercelo in testa e arriviamo al giorno prima del primo giorno con la lista dei materiali completata già da fine Luglio ma con la tradizionale Schultüte piena a metà. I giorni scorsi sono stati pieni di appuntamenti e cambiamenti, dall’inizio dell’Hort ai 2 chilometri di strada (effettivi, non ipotetici) che ha imparato a camminare da solo con gli amici la mattina presto, fino alla riunione genitori di ieri sera.

Nano continua la tradizione di famiglia, sarà in 1a B, come la mamma, il papà e lo zio, se non ricordo male anche i nonni. Domani il programma prevede una cerimonia in chiesa, poi una cerimonia a scuola, poi 45 minuti della prima lezione e poi a casa. Le famiglie al completo, nonni, zii, fratelli, partecipano in massa, mentre noi saremo solo in tre, perfino i fratelli abbiamo deciso di lasciarli al Kindergarten e offrire al primogenito una giornata dedicata. E’ una scelta controcorrente che ha scatenato sguardi sorpresi: “E cosa fate poi? Come passerete la giornata?” Non abbiamo organizzato nulla, perché non ci abbiamo pensato. Dopo essere caduta dal pero, ho deciso che andremo prima a pranzo insieme da qualche parte e poi in un negozio a comprare un Lego commemorativo.

Non solo è un ripiego il pranzo, lo è anche la visita al negozio di giocattoli, perché sarei dovuta andare a comprare il Lego oggi ma ho molto lavoro da sbrigare e mi avvalgo della facoltà di tramutare l’esigenza in attività ludica celebrativa.

Perché adesso, ditemi voi, ricordate il vostro primo giorno di prima elementare? Mia madre c’era, mio padre sostiene di essere stato presente, ricordo che hanno chiamato le classi e ricordo i banchi quadrati e la bambina seduta di fianco a me coi capelli voluminosi, ancora oggi una cara amica. Per quanto i miei genitori dessero una grande importanza alla scuola, non ci sono stati regali, feste, nonni o bisnonni. “Bene,” “brava” e fine.

Adoro festeggiare ma in questo caso trovo il sistema un tantino stressante per tutti, anche per il mio Nano che lo stress lo regge poco. E tutte ‘ste cerimonie collettive, tutto questo sottolineare l’importanza, e chi ha la Schultüte più bella, più ricca, più piena, le foto commemorative singole e di classe. Mi sembra troppo… ma mi riservo di scrivere in dettaglio come è stata la giornata. Sono agitata anche io.

Da una maglietta: Episode II “Kindergarten, DAS WARS. Möge die Schule mit dir sein”.

 

 

Settembre, dieci anni fa

Dieci anni fa a settembre iniziavo a lavorare come responsabile ufficio stampa ed eventi in uno studio di comunicazione specializzato in architettura. Avevo alle spalle una laurea pochi mesi prima, poi un quadrimestre come insegnante delle scuole medie, e infine una estate a Malta come guida per studenti.

Come molti neo laureati, non avevo idea delle possibilità offerte dal mondo del lavoro, l’unica cosa che mi era chiara erano gli ambiti in cui non avrei voluto lavorare. Chiaramente, il primo tra questi era l’architettura. Inoltre, diversamente da tante coetanee, ero dispostissima a spostarmi, perfino ad emigrare, invece il lavoro che mi si proponeva aveva sede a Lecco, a una quindicina di chilometri da casa dei miei genitori. Risposi all’offerta perché il profilo richiesto era coerente col mio, il colloquio fu abbastanza facile e pochi giorni dopo entrai in quell’ufficio con le pareti colorate e tante tante emozioni, positive e negative, che ne coloravano invece l’aria.

Passai la prima settimana a sfogliare riviste di architettura e edilizia, a causa di una disorganizzazione momentanea nelle rassegne stampa che poi scoprii essere cronica. Pensai che fosse una pazzia avere quattro persone che per otto ore sfogliano un monte di riviste, ma ero entusiasta. I primi mesi mi furono assegnate moltissime traduzioni e nel frattempo erano molti i nomi da ricordare tra clienti, fornitori, colleghi, redazioni. Tanta la confusione, concausa di tensioni interne ed esterne, e in tutto questo scoprii che la mia propensione all’ordine mentale poteva essere messa a buon frutto. Tornai quindi alla base della organizzazione personale, comprai l’agenda e la rubrica cartacea, linee guida irrinunciabili che uso ancora oggi.

Come in tutte le esperienze, alcune persone sono state deludenti, altre si sono rivelate delle grandi opportunità e ho imparato un mestiere che, in tutta sincerità, mi viene abbastanza bene.

L’architettura continua a piacermi poco, ma ci sono troppo immersa per non capirne il bello e il brutto. Mi piacciono i progettisti pratici, quelli che costruiscono e disegnano per vivere, per utilizzare, per ricercare risorse materiali e risorse emozionali. Insomma, quelli che sanno cosa stanno facendo e in quale direzione stanno andando. Pollice verso (ma nel mio lavoro ci si ripara dietro una cordiale e fenomenale faccia di tolla), gli architetti che si perdono nei meandri di filosofie inventate da loro stessi e che si misurano l’ego con il righello. Con loro, prima che con i figli, ho allenato la virtù della pazienza.

Sbucata fuori dalla linguistica, mi scopro più propensa a cercare il dettaglio tecnico per capire bene io stessa di cosa sto parlando. E se poi non posso esimermi dal decorarlo di parole di contorno, che ci vuoi fare, il mio lavoro in fondo è questo.